Degustando Nebbiolo di Montagna con Gianluca Macchi

Quando la formazione e l’aggiornamento sono un piacere per mente e palato.

Spesso è quanto accade partecipando agli incontri realizzati dalla mia Delegazione AIS. Come nel caso della serata dedicata alla scoperta di alcuni vini della Valtellina, valle subalpina addossata alle Alpi Retiche, dall’inusuale profilo longitudinale e con un terroir variegato dove il “Nebbiolo di montagna” (chiamato Chiavennasca nella provincia di Sondrio, alta Lombardia) esibisce equilibri ben studiati, quasi sorprendenti, e sfumature raffinate, sia al naso che in bocca.

A condurre la degustazione c’è il Dott. Gianluca Macchi, ora responsabile del “GAL Valtellina” dopo molti anni trascorsi come direttore del CERVIM (Centro Ricerca Internazionale, Studi e Valorizzazione per la Viticoltura Montana), il quale ha raccontato, con trasporto coinvolgente, di un territorio vocato alla coltivazione di uve eccellenti, dove il blasone del vitigno Nebbiolo non si è cristallizzato in ottuse scelte di mercato, ma ha condotto i produttori alla continua ricerca della perfezione, sebbene ogni casa vitivinicola ne abbia dato una propria personalissima interpretazione.

Merito ancor maggiore bisogna riconoscere ai produttori di questa terra i quali, come accade in diverse zone d’Italia, si trovano a confrontarsi con un’orografia del territorio che non facilita il mestiere. Mi riferisco ai terrazzamenti necessari per coltivare la vite in quota: 2.500 chilometri di muretti a secco la cui profondità è corresponsabile della vigoria delle piante e della qualità delle uve. Perché qui il terreno ha uno scheletro importante, ricco di scisti, ma scarso di argilla, presente invece nelle altre regioni di produzione del Nebbiolo. I vini prodotti, perciò, si caratterizzano per una struttura meno imponente, ma eccellono in mineralità e freschezza e possiedono una trama tannica elegante già nei primi anni di vita.

 

 

Come al solito, però, generalizzare rischia di condurre a deduzioni banali, quando invece sappiamo benissimo quanta parte rivestano la passione e l’attenzione dell’uomo sull’armonia complessiva di un buon vino. Pertanto, bisogna assaggiare per poter farsi un’idea più precisa della cantina, tenendo sempre presente che l’orientamento prevalente è quello di sfruttare le peculiarità dei cru, parcelle di terreno con caratteristiche uniche per composizione morfologica, esposizione e microclima, in modo da ottenere vini di grande personalità, facilmente identificabili e impossibili da imitare. È una serata dedicata all’unicità, dunque, alle sottozone della DOCG Valtellina Superiore (Maroggia, Sassella, Grumello, Inferno e Valgella) con qualche succosa parentesi nel Rosso DOC e nella Sforzato DOCG.

 

 

Rosso di Valtellina DOC “Nettare” 2016 (12% vol.) – Tenuta Scerscé di Cristina Scarpellini 

Siamo di fronte ad un vino sbarazzino, dai colori delicati e trasparenti del più classico Nebbiolo, ma brillantemente invitanti, a preludio di un’acidità attesa nel sorso. La scelta ponderata di una sobria estrazione dalle uve vendemmiate dopo la seconda metà di ottobre, non incide sensibilmente sul bouquet che offre gradevoli sentori di frutta rossa fresca come la ciliegia, proseguendo verso un frutto di bosco come il mirtillo o il ribes nero; poi la speziatura, proveniente anche dall’affinamento di sei mesi in botti di rovere, il floreale di violette selvatiche e, avendo la pazienza di lasciare emergere anche gli ultimi sentori, una vaga suggestione erbacea. In bocca ritroviamo un’esuberanza piacevole, giovanile, quasi che il vino abbia assorbito le fattezze di Cristina, giovane e intraprendente titolare della cantina Scerscé. Freschezza dunque, ma anche tannini vivaci, di buona fattura e mai irruenti, con i quali giocare ad indovinare l’età migliore: vino pronto, sicuramente, con una maturità percepibile dall’equilibrio delle componenti, esaltate nella chiusura netta e dal retrogusto inaspettatamente amarognolo.

 

 

Valtellina Superiore DOCG Sassella “Stella Retica” 2015 (13% vol.) – Arpepe S.r.l. Società Agricola 

Vino franco, di territorio, figlio della storia più profonda della Valtellina, capace di conseguire ottimi risultati perché coniuga il piacere in tutte le sue declinazioni. Prodotto con uve allevate tra i 400 e i 600 m slm, il rosso rubino è intenso, già con accenni granato, provenienti da un processo di vinificazione attento e articolato che transita attraverso 120 giorni di macerazione in tini di legno da 50 hl e si esalta in successivi 18 mesi di affinamento tra tini, botti, cemento e bottiglia. Gianluca approfondisce la degustazione raccontando del microclima e delle condizioni colturali insolite di quest’azienda pluripremiata: i siti di giacitura poggiano su terrazzamenti mediamente più alti (da 8 a 10 m rispetto ai 4/5 m di altezza media) i quali permettono alla vite di attingere ad un quantitativo più cospicuo di nutrimenti nonostante lo scheletro rimanga sassoso e, pertanto, contribuisca notevolmente all’impronta minerale del vino; ma ci troviamo anche in una zona particolarmente protetta dalla furia degli agenti atmosferici, tant’è che tra le asperità rocciose dei muretti a secco riesce ad attecchire il fico d’india, regalando un paesaggio insolito a chi visita i vigneti della Sassella. Il naso è fine, ma ben caratterizzato da una suggestione terrosa piuttosto definita che s’adagia sulla viola e sul frutto maturo di marasca. L’ingresso in bocca è definito da una ricca acidità e da una trama tannica fitta e resistente, grazie alla quale il vino diventa muscolare e di territorio.

 

Valtellina Superiore DOCG Inferno “Vigneto Fracia” 2015 (13,5% vol.) – Nino Negri

Sorso elegante, intenso, dinamico e armonico, frutto anche di un sapiente gioco di legni che modella ed esalta le importanti caratteristiche del mosto in una mirabile amalgama di durezze e morbidezze. Fracia, il cru, la vigna, conferisce il prestigio dovuto al terroir nel senso più autentico del termine: esposizione, composizione del terreno, microclima, selezione massale, condizioni atmosferiche, ma anche la mano dell’uomo, così presente e così discreta. La pianta scava nei suoi terrazzamenti, attinge i nutrimenti necessari e s’insinua fino alla roccia madre, da cui sugge il minerale che riversa negli acini. La macerazione è breve, ma il frutto carico impone un affinamento ponderato, evolutivo, dove la barrique plasma ed esalta tannini e acidità. La carica del vino è evidente già dal colore rosso granato con rilessi rubino e una profondità da cola. Al naso l’emozione vira immediatamente verso ricordi dolci, di un frutto rosso in confettura, ciliegie, uno balsamico goloso di caramella al rabarbaro e, usando al calice la giusta temperanza, sentori accattivanti di cipria e tè verde. La complessità olfattiva è sostenuta da una struttura imponente, una fitta intelaiatura realizzata da trame sottilissime, ma estremamente resistenti. Le fondamenta acide e minerali sono cosparse di glicerica morbidezza, mentre la sensazione pseudocalorica gioca a rincorrersi con i tannini fini, ma non del tutto maturi. Il produttore suggerisce sette anni di cantina, ma anche solo dopo tre questa bottiglia è stata capace di regalare molte emozioni, talune inaspettate, come la lunga persistenza aromatica del frutto e, soprattutto, la nota rinfrescante di liquirizia e rabarbaro.

 

 

Valtellina Superiore DOCG Riserva Valgella “Carterìa” 2014 Sandro Fay (13% vol.) – Soc. Agr. Fay di Fay Marco

La sottozona Valgella incontra Marco, rampollo di Casa Fay ed esponente della “nouvelle vague” del Nebbiolo delle Alpi, in quanto il suo amore per il territorio non gli impedisce di fare ricerca per estrarre il meglio che il vitigno ha da offrire. Vino complesso, dunque, figlio di un instancabile processo di perfezionamento che ha trovato la quadratura del cerchio nella fermentazione alcolica in vasche d’acciaio, a cui segue una fermentazione malolattica e la doppia maturazione che si svolge per complessivi 12 mesi tra botti da 30 ettolitri e tonneaux di rovere da 500 litri. Rosso granato importante dai luminosi riflessi aranciati, indici di una freschezza direttamente imputabile al suolo che nella vigna Carterìa si presenta particolarmente acido. Il legno c’è, ma non stona, anzi conferisce la giusta complessità senza estinguere gli aromi secondari che raccontano di ciliegie e piccoli frutti a bacca nera, di violette e spezie decise come il pepe nero e i chiodi di garofano. In bocca si fa sentire la struttura avvolgente anche fatta di tannini setosi e morbidezze, mai rese inopportune grazie ad una freschezza pronunciata, in grado di bilanciare la contropartita gustativa di frutta rossa che evolve in un lungo e piacevole floreale, dove una spiccata mineralità riaffiora anche per via retronasale.

 

Valtellina Superiore DOCG Sassella “Le Prudenze” 2014 (14% vol.) – Az. Agr. Alberto Marsetti

Il primo aggettivo a materializzarsi nella mia mente al termine della degustazione è stato sfacciato. Nella sua accezione migliore, però. Questo vino possiede, con intensità evocativa tutte, le qualità per esaltare i sensi, raccontare il cru da cui proviene e indurre a versarsi il secondo bicchiere. Grande freschezza, tannino polimerizzato, una sapidità importante contro il velluto che accarezza la lingua e una godibilissima sensazione pseudocalorica, che non infastidisce proprio perché ottimamente bilanciata. Gianluca spiega quanto l’annata sia stata difficile, anche se le potenzialità del vitigno erano ugualmente racchiuse nei grappoli i quali, accuratamente selezionati e lavorati, hanno regalato quanto di meglio il loro corredo fenolico potesse offrire. Si è trattato di realizzare in cantina un’opera scultorea, sgrezzando, levigando e affinando la perfezione nascosta negli acini: macerazione e fermentazione a cappello sommerso per 10 giorni in botti da 25 ettolitri; affinamento di 24 mesi al 50% tra barrique nuove e di secondo passaggio; decantazione in vasche d’acciaio (ad escludere qualunque tipo di filtrazione) e ulteriore affinamento in bottiglia per 6 mesi. Tanto lavoro si ritrova nel bicchiere dove il rosso rubino inizia a cedere il passo ad un vivace granato e i profumi danzano tra la frutta matura più scura, come la prugna e la mora, e lo speziato meno dolce, con avvicendamenti di tabacco bruno, legno e un ricordo minerale. In bocca sono tannino e acidità a fronteggiarsi con uguale determinazione e persistenza, mentre la sapidità osserva dall’alto con benevola opulenza, occhieggiando alle note alcoliche di frutta e spezie.

 

 

Sforzato “Sfursat di Valtellina” DOCG 2015 (15% vol.) – Casa vinicola Aldo Rainoldi

Realizzato con la “tecnica Amarone”, di cui la Valtellina contesta la paternità, ci troviamo al cospetto di un vino opulento. Le uve sono lasciate ad appassire sui graticci da ottobre a fine gennaio per ottenere una maggiore concentrazione di zuccheri, aromi e polifenoli; si prosegue con circa 60 ore di criomacerazione pre-fermetativa e quindi una macerazione a temperatura controllata con frequenti rimescolamenti delle vinacce, ottenendo un’estrazione imponente; entro la primavera, infine, si svolge la malo lattica che schiude le porte all’affinamento di 18/20 mesi in grandi botti di rovere e si conclude in bottiglia per almeno un anno. Le lunghe e attente lavorazioni creano un susseguirsi sbalorditivo di sensazioni sia a livello olfattivo che gustativo: il rosso granato intenso e compatto ammalia la vista con la sua profondità, attira il naso verso l’imboccatura del bicchiere e lo esorta ad inspirare; il frutto succoso, in questo caso una confettura di susine o la prugna essiccata, non è il maggior protagonista, ma è più simile ad un discreto padrone di casa durante un ricevimento offerto a note speziate, balsamiche ed eteree; sentori di caffè e nocciola tostata sfumano in suggestioni di cuoio e resina; l’ingresso in bocca è sontuoso, fruttato e speziato, con una gradevole sensazione zuccherina di uva sultanina, cacao e legno di cedro, a cui si contrappone un’acidità importante che permette un invecchiamento ben superiore ai tre anni concessi prima dell’attuale degustazione. Vino da assaporare lentamente per godersi appieno l’estasi gustativa e, se proprio si deve, da sposare con cibi saporiti e strutturati.

Valtellina Superiore DOCG Sassella “PG40” 2011 (13% vol.) – Az. Arg. La Spia di Rigamonti Michele

A discapito della normale scaletta di degustazione, l’ultimo vino fa un passo indietro per quanto riguarda struttura e tenore alcolico. Ciononostante risulta talmente caratterizzato da non sfigurare all’assaggio, in quanto l’impronta del terroir è potente, lasciando emerge già al naso la prepotenza minerale dell’anfiteatro roccioso che protegge il suolo su cui sorge il vigneto di quarant’anni. Un cru davvero particolare nella sottozona Sassella che consente alla maison lombarda di fregiarsi dell’appellativo “vin de vieilles vignes” (vino delle vecchie vigne). Rosso rubino insofferente del trascorrere del tempo oltre che delle proprie origini che, dunque, vira prepotentemente al granato, più adeguato ai 48 mesi di affinamento in botte grande, ma soprattutto al terreno ferroso su cui insiste la vigna. Infatti al naso, subito dopo l’intensità dei frutti rossi maturi e dello speziato, è impossibile non lasciarsi incuriosire da una nota vagamente metallica che mi fa propendere a definire questo vino anche sanguigno. Il sorso è ugualmente incisivo, di freschezza e sapidità impressionanti, con un tannino evoluto ed elegante che non cela l’evoluzione gustativa dal frutto selvatico e maturo, allo speziato dolce della liquirizia sino al suadente finale floreale di primula rosa.

 

Socializziamo?

La cantina de I Castelli di Bolano: viticoltori tra mito e tradizione

La Società Cooperativa “I Castelli” Srl di Bolano è nata alla fine degli anni ’90 e si compone di 75 soci, dei quali 40 sono viticoltori. Premiata anche al Vinitaly come una delle realtà emergenti più interessanti, la cantina si è inserita con discrezione nel tessuto sociale divenendo un collante dall’elevato potere aggregativo tra la popolazione del comune. A tutti coloro che coltivavano la vite da generazioni è stata offerta la possibilità di proseguire la propria attività usufruendo delle sinergie derivanti da una realtà organizzativa più complessa e strutturata, capace di seguire con uguale attenzione sia l’aspetto produttivo per migliorare la qualità del vino ottenuto, che quello commerciale per trovare una collocazione remunerativa alle bottiglie.

Veramente imperdonabile sarebbe stato, da un punto di vista enologico, lasciare all’incuria un patrimonio vitivinicolo dalla tradizione millenaria la cui validità era già ben nota nel 1600 allorquando Ventura Peccini (detto il Panicalese, erudito poeta che cantò del natio territorio lunigianese) scriveva:

« Mentre ti affretti a lasciare le fosche lame di Aulla,

luoghi di assalti e di sangue,

e quando il Magra in sue rive pigre e più largo si stende,

ti trovi alle spalle Bolano.

Allor converrà che ti informi ove comprar del buon vino.

Se lo vorrai del migliore per forza sarà di Bolano. »

 

Nella prima metà del XIII secolo, inoltre, si tramanda che gli abitanti di Bolano, intolleranti al dominio dei toscani Malaspina, si posero sotto l’egida della Repubblica di Genova la quale, consapevole della qualità dei vini prodotti nella zona, pretese che il pagamento per la propria protezione avvenisse in botti di pregiata bevanda.

Oggi le uve conferite e vinificate nella storica cantina del castello Malaspina, permettono a “I Castelli” di produrre ca. 40.000 bottiglie di vino all’anno di ottimi bianchi e rossi appartenenti alla denominazione d’origine “Colli di Luni”.

 

BIGNEI COLLI DI LUNI VERMENTINO DOC 2017 (12,5% vol.)

A prima vista colpisce più del colore giallo paglierino in sé, la sua luminosità, il suo essere cristallino. Ci troviamo di fronte a un “cru”, ovvero a bottiglie realizzate con l’uva proveniente da uno stesso appezzamento di terreno che, nel caso specifico, denota lo storico appellativo della vigna sorta sulla Costa Bignei. I profumi che si sprigionano dal bicchiere sono quelli delicati, ma inconfondibili del Vermentino vinificato in purezza, con riconoscimenti floreali di ginestra, glicine e acacia, fruttati di mela e sfumature citrine, oltre ad inaspettati sbuffi minerali che rendono questo vino piuttosto fine e sicuramente non banale. In bocca freschezza e sapidità si combinano con discreta armonia e, soprattutto, sono equilibrate se confrontate con le cosiddette parti “morbide” del vino, costituite essenzialmente da alcoli e polialcoli. Il sorso regala, dunque, una sensazione complessiva di struttura e maturità anche se manca ancora qualche dettaglio per raggiungere la completa armonia. Pertanto, volendo paragonare questo vino ad un essere umano nell’avvincente giuoco dell’”antropomorfia enoica”, potremmo immaginarcelo sicuramente al maschile, simile ad un giovane uomo, non completamente pronto ad affrontare tutte le sfide della vita, ma dotato certamente di grande consapevolezza.

 

COLLI DI LUNI VERMENTINO DOC 2017 (12,5% vol.)

Possiamo considerare questo vino alla stregua dell’ambasciatore prima del territorio e poi della cantina. Anzi, volendo proseguire sulla falsa riga delle speculazioni antropomorfiche, potremmo dire che questo vino ne è l’ambasciatrice. Nel confronto con la bottiglia precedente si coglie immediatamente la differenza di eleganza e personalità, da intendersi non già in senso migliorativo o dispregiativo quanto piuttosto in senso oggettivo. Il limpido giallo paglierino, denota ancora vividi riflessi di smeraldina gioventù, mentre i profumi si fanno più marcati e intensi, seppur di minore complessità. Risultano predominanti i fiori di campo, la ginestra e un turbinio di vegetazione mediterranea che baciata dal sole e lambita dal salmastro, trascina le sue note fresche e sapide anche nel palato. Sorso piacevole e disinvolto, conduce il degustatore ad un secondo assaggio per verificare la consistenza delle sue prime impressioni. Questo Vermentino è femmina, forse per la contaminazione da un 10% di Albarola che la fa atteggiare a giovane donna, sbarazzina e impertinente, con una contagiosa gioia di vivere, vestita di un ampio abito a fantasia floreale che stringe in una mano una pesca matura e nell’altra un mazzetto di erbe odorose.

 

VECTIO COLLI DI LUNI ROSSO DOC 2017 (13% vol.)

Difficile parlare di questo vino senza lasciarsi suggestionare dal nome che gli è stato attribuito. Limpido e profondo, il colore predominante è il rosso porpora che, solo inclinando il calice, offre alla vista sfumature di un caldo rubino, richiamando alla memoria le vestigia degli antichi romani. La leggenda narra, infatti, che Vectius Bolanus, comandante di legione inviato nel nord Italia per sottomettere le bellicose tribù dei Liguri, edificasse il primo insediamento stabile sulle alture che dominano la vallata prodotta dalla congiunzione del fiume Vara con il Magra. Quasi scontato ritrovare nel vino alcuni tratti del condottiero che tanta parte sembra aver avuto nella storia del borgo di Bolano: l’impeto del comando si sprigiona nell’intensità dei profumi, solo sfuggevolmente floreali e più marcatamente fruttati con riconoscimenti di amarena e piccole bacche di bosco, ai quali si sovrappongono accenni vagamente speziati come di pepe nero; in bocca l’ingresso è irruento, ma avvolgente, scatenando una battaglia tra la gradevole sensazione pseudocalorica, la discreta morbidezza ed i tannini, ancora un po’ graffianti, ma di buona fattura e perciò smussabili con qualche ulteriore mese di affinamento in bottiglia; più fresco che sapido, ci troviamo di fronte ad un vino “pronto”, nel senso che pur essendo gradevole anche nell’immediatezza, le sue doti potranno essere meglio apprezzate usandogli maggior pazienza. Recuperando la metafora del condottiero romano, questo vino è giovane, esuberante; è un ragazzo che vorrebbe atteggiarsi da adulto, del quale ha tutte le potenzialità, ma a cui, alla stato attuale, sembra mancare un poco di temperanza.

Socializziamo?

Il vino di Charles – Analisi morale di un comportamento dipendente

Non è un caso che un francese dedichi un intero saggio, seppur breve, all’analisi delle caratteristiche del vino. Egli pone l’attenzione non già sull’aspetto organolettico, ma affronta l’argomento da un punto di vista sociale e morale confrontando gli effetti della bevanda con un altro “mezzo di moltiplicazione dell’individualità”, ovvero l’hashish.

In questa sede non pare opportuno ripetere il medesimo percorso comparativo, ma può valer la pena soffermarsi a valutare il ruolo svolto dal vino seguendo la sensibilità di un individuo vissuto nel XIX secolo il quale, grazie al proprio temperamento artistico, ha lasciato una profonda impronta nella cultura contemporanea: Charles Baudelaire.

Noto al grande pubblico come uno dei “poeti maledetti”, Baudelaire fu in realtà uomo di intensa religiosità e drammatica attenzione a ciò che riteneva facesse parte della morale del proprio tempo. La sua difficoltà nel conformasi agli stili di vita reputati consoni dalla società ottocentesca, non era altro se non la presa di coscienza della mediocrità e depravazione che si voleva nascondere al prossimo con atteggiamenti artefatti e perbenistici solo nelle apparenze. Ma nei suoi “Paradisi Artificiali” esiste ancora un’affettuosa indulgenza nei confronti di chi trovi consolazione ai propri affanni nel vino, tant’è che una delle sue affermazioni più citate insinua un plausibile dubbio nei confronti degli astemi: « un uomo che beve solo acqua ha un segreto da nascondere ai propri simili ». Facile il richiamo al “in vino veritas” di matrice latina, anche se trasposto nella forma propositiva più confacente al sentire del poeta, da cui promana la compiuta espressione del concetto di moltiplicazione dell’individualità in base al quale « L’uomo cattivo diventa esecrabile, così come il buono diventa ottimo. ».

V’è da dire che la trattazione dell’argomento enoico soffre di una valutazione soggettiva dell’autore che ne esamina le conseguenze essenzialmente in caso di uso sostenuto, allorquando l’intossicazione alcolica riduca in maniera più o meno dignitosa la piena lucidità raziocinante dell’individuo. Probabilmente consapevole di questa sua debolezza, Baudelaire risponde seraficamente ad ipotetici detrattori (falsi moralisti nda) che lo accusino di giustificare l’ubriachezza e idealizzare la crapula con: « Se il vino scomparisse dalla produzione degli uomini, credo che nella salute e nell’intelletto del pianeta verrebbe a crearsi un vuoto, un’assenza, un difetto assai più orribile di tutti gli eccessi e le deviazioni di cui il vino viene ritenuto responsabile. ».

I think i’m drunk by Benheine

È in questo contesto che si fa strada il conflitto, o se vogliamo la continua metamorfosi, tra la visione spirituale e quella umana del vino.

Dapprima, forte anche delle affermazioni del “divino Hoffmann”, al vino è conferita la qualità di musa ispiratrice: in particolare per i musicisti, ai quali viene consigliato di bere Champagne per comporre un’opéra comique (« Vi troverà la spumeggiante e leggera gaiezza che il genere richiede »), vino del Reno o del Jurançon per la musica religiosa (« Come alla radice delle idee profonde, vi si trova un’amarezza inebriante »), vino di Borgogna per la musica eroica (« Esso ha l’ardore severo e la forza trascinante del patriottismo »).

Pochi paragrafi più avanti lo invoca come « dio misterioso celato nelle fibra della vite », per poi dichiarare la somiglianza tra uomo e vino, ammonendo a non essere più crudeli verso di lui che verso noi stessi e a trattarlo da pari a pari in quanto, proprio in virtù di tanta comunione spirituale, « non si saprà mai fino a qual punto lo si possa stimare o disprezzare, amare o odiare, né di quali azioni sublimi o di quali mostruosi misfatti sia capace ».

Subito dopo il vino acquista una propria identità sublime e universale, così come il genere umano che lo ha partorito ed i cui sforzi produttivi ne permettono la costante rinascita, di anno in anno. Baudelaire arriva persino ad affermare di averne udito le parole, nonostante la prigione di vetro e i chiavistelli di sughero, perché il vino parla « con la sua anima, con quella voce degli spiriti che soltanto gli spiriti intendono ». E quali potrebbero essere i sussurri uditi dal poeta, se non quelli che sanciscono una reciproca dichiarazione d’amore? Un sentimento talmente elevato che sconfina nel divino, dopo l’estremo sacrificio. Sì, perché la riconoscenza del vino verso l’uomo lo spinge a bramare più d’ogni altra cosa di annullare se stesso per ricongiungersi al suo creatore, scivolando in fondo alla sua gola assetata e colmandone il petto da cui, con scale invisibili, sale al cervello dove esegue la sua danza suprema. Ma questa unione sarà talmente intima e prolifica da creare poesia che elevi l’uomo ad uno stato superiore: « Noi due, insieme, saremo un Dio, e volteggeremo verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i fili di ragno, i profumi e tutte le cose alate. ».

Infine, prima di passare alla trattazione sull’hashish, in un connubio tra alchimia pagana e teologia cristiana Baudelaire giunge a prospettare una sorta di relazione trinitaria scaturente dalla comunione dell’uomo col vino affermando che « certe bevande posseggano la proprietà di accrescere oltre misura la personalità dell’essere raziocinante, e di creare, per così dire, una terza persona: operazione mistica, nella quale l’uomo naturale e il vino, il dio animale e il dio vegetale, hanno il ruolo del Padre e del Figlio nella Trinità; essi generano uno Spirito Santo, che è l’uomo superiore, il quale procede, anch’egli, dai primi due. ».

L’attrazione di Baudelaire verso il vino e la riconoscenza che tutti dovrebbero provare nei suoi confronti è sancita con estrema veemenza nell’incipit del saggio dove affronta, senza giri di parole, un magistrato francese reo di aver pubblicato un trattato di gastronomia (Physiologie du Goût – 1825) descrivendo il vino con queste sole parole: « Il patriarca Noè passa per essere l’inventore del vino; si tratta di un liquore che si fa con il frutto della vite. ». Tanto è il disprezzo per colui che non ha reputato necessario spendere qualche riga in più nei confronti della bevanda per antonomasia, da spingerlo ad iniziare il proprio lavoro con la pungente considerazione ispiratagli dall’autore del trattato: « Un uomo molto celebre, e un grande imbecille al tempo stesso, cose che, a quanto pare, vanno benissimo d’accordo, come certamente avrò più di una volta il doloroso piacere di dimostrare […] », concludendo con un severo ammonimento ai suoi lettori: « Ah! Cari amici, non leggete Brillat-Savarin. Dio preservi coloro che gli sono cari dalle letture inutili ».

Pertanto, per Baudelaire, il vino è vita e benevolenza; è la manifestazione del divino nell’umano sino all’esaltazione nella realizzazione del superuomo, liberato dagli affanni e dai limiti del quotidiano; è la metafora dell’esistenza e l’essenza dei rapporti sociali, illuminati sempre di una connotazione positiva, quasi come si trattasse di una redenzione.

« Nulla eguaglia la gioia dell’uomo che beve se non la gioia del vino di essere bevuto. In realtà il vino ha una funzione intima nella vita dell’umanità, talmente intima che non mi meraviglierei se alcune menti ragionevoli, sedotte da un’idea panteistica, gli attribuissero una sorta di personalità. Il vino e l’uomo mi fanno pensare a due lottatori tra loro amici, che si combattono senza tregua, e continuamente rifanno la pace. Il vinto abbraccia sempre il vincitore. ».

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Non solo vini al Podere Scurtarola. Incontro con Pierpaolo Lorieri

Visitando Siena con mia moglie, m’imbatto nell’Enoteca Nazionale Italiana. Una locandina promozionale invita a “Il Giro d’Italia”: degustazione di tre calici con vini provenienti da diverse regioni. Esperienza interessante, condotta con affabile professionalità dalla sommelier in servizio e conclusasi con lo scambio di alcune informazioni di circostanza dovute alla nostra condizione di turisti. Parliamo di cantine del levante ligure (nostra zona di provenienza), viticoltura eroica, D.O.C. Cinque Terre e Colli di Luni, finché la conversazione scivola su un’azienda vitivinicola della vicina Toscana: Podere Scurtarola. Vengo a sapere che è gestita da una persona gentile, competente e, cosa tradizionalmente insolita per le nostre parti, ospitale. Il suo nome è Paolo Lorieri.

Non riuscendo ad organizzare immediatamente un incontro, trascorrono alcuni mesi. La prima impressione ricevuta al telefono è comunque accattivante: poche battute, ma sufficienti per capire trattarsi di persona ironica e di compagnia; ha scelto di non proporsi al pubblico attraverso i classici canali di comunicazione e, di solito, la sua struttura non è aperta al pubblico, almeno nell’accezione più comune e promozionale del termine; sembra serafico nella consapevolezza della sua politica aziendale che non prevede di inseguire il consumatore ad ogni costo o le mode enologiche del mercato. Rimango drammaticamente incuriosito e determinato a conoscerlo.

Quando riesco a concordare una data per la visita in cantina, la mia intenzione è quella di sfruttare il tempo a disposizione realizzando una breve intervista per far emergere gli aspetti peculiari della sua strategia: cosa lo abbia spinto a produrre vino, i vitigni impiegati, le tecniche di cantina, come si comporti con i clienti, i suoi mercati di sbocco, per quale tipo di comunicazione pubblicitaria abbia optato e altre domande classiche per curiosi del settore. Magari corredando il tutto con qualche scatto didascalico.

Se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è quella di programmare meticolosamente ogni attività con la consapevolezza della potenziale inutilità di tanta cura. La seconda lezione è, giocoforza, l’improvvisazione.

La giornata prescelta si rivela una delle più uggiose e umide di fine febbraio. Il cielo è asfaltato di nubi, mentre il parabrezza è offuscato da una pioggia finissima e incostante. Svanisce così la speranza di realizzare foto decenti.

Sono in un ritardo vergognoso. Decido di cambiare itinerario all’ultimo momento, preferendo l’autostrada alla statale, pur consapevole che la prima impressione lasciata a Paolo sarà quella di una persona poco puntuale. A metà tragitto la pioggia cessa e, all’orizzonte, si forma un’accecante lama di luce a sancire il confine tra cielo e mare, mentre le Alpi Apuane osservano silenziose, arcaiche spettatrici avvezze a simili prodigi.

Mi fermo nel luogo convenuto per ricevere informazioni più precise su come raggiungere la cantina. Durante la precedente telefonata per confermare l’appuntamento, ero stato redarguito a non prendere iniziative personali, perché perdersi nell’entroterra massese sembrava fosse cosa curiosamente frequente. Nonostante le precise indicazioni del padrone di casa, devo chiedere informazioni ad un paio di pittoreschi indigeni i quali mi suggeriscono di eseguire una curva a V per immettermi in una stretta via di campagna. Durante la manovra lascio qualcosa dell’auto lungo il muretto ad angolo del crocicchio. Brivido di terrore, ma il ritardo non mi permette di fermarmi a controllare eventuali conseguenze meccaniche. Incrocio le dita e confido di non doverle scoprire strada facendo.

Una volta imboccata Via dell’Uva non c’è possibilità di perdersi! Man mano che si sale la natura prende il sopravvento, obliando le strade trafficate e il rumore della città, mentre lo sguardo rimane rapito dal paesaggio circostante intriso di umano e divino: la collina digrada verso l’agro massese, con i suoi campi, le sue abitazioni e la zona industriale, incastonati tra la maestà delle Alpi Apuane, con le celeberrime cave di marmo, e il mare infinito che all’orizzonte trascende il cielo.

Andando a visitare un’azienda vitivinicola con annessa cantina sembra quasi obbligatorio parlare di vini, ma quando si viene accolti da un padrone di casa capace di instaurare subito un rapporto di gioviale professionalità, cadono tutte le convenzioni e gli stereotipi delle aspettative precedenti all’incontro col produttore.

La prima cosa che colpisce la vista, oltre alla figura del titolare col suo cappello nero a falda larga a conferirgli quel non so ché di misterioso, tra un Sean Connery e un Indiana Jones, è il panorama spettacolare, offerto dalla vertiginosa altezza raggiunta in una manciata di chilometri, di vigne che si susseguono lungo pendii scoscesi e difficilmente praticabili.

Mentre mostra orgoglioso le sue viti, Pierpaolo Lorieri condivide la propria visione dell’esistenza: in principio era il Caos e il caos tuttora regna. Venutasi a creare una connotazione piuttosto negativa della parola, l’uomo moderno ne ha addolcito il suono tramutandolo in “entropia” ed esorcizzato la complessità del disordine grazie ai propri schemi mentali. Ma per quanto ci si possa sforzare di gestire ogni aspetto della nostra vita, non avremo mai il pieno controllo di tutte le variabili. Talvolta siamo così protesi a piegare la Natura ai nostri desideri da non renderci conto che seguendo le sue semplici evidenze oggettive, produrremmo meno danni sfruttando meglio le nostre e le sue risorse.

Perciò, per quale motivo dannarsi ad ottenere risultati diversi da quelli perseguibili in modo più semplice e naturale? Pierpaolo ricorda i contadini di un tempo: soprattutto il nonno, quotidianamente dedito a curare le sue terre, giustificando le costanti attenzioni dell’avo col fatto che i motivi di distrazione all’epoca fossero davvero pochi. « Poveretto, cosa volevi che facesse tutto il giorno… o veniva in vigna o doveva stare a casa con mia nonna… e allora giù a legare tralci, sostituire pali, potare, sfalciare… ».

Oggi le viti hanno la libertà che contraddistingue il sentire e l’azione del nuovo proprietario. « Se la Natura le ha fornite di viticci, perché costringerle artificialmente? ». La coerenza di pensiero emana dalle sue piante: il fusto piuttosto basso si regge autonomamente, mentre gli unici supporti offerti sono dei tratti di fil di ferro ai quali i viticci si avviluppano, accompagnando la spontanea direzione del nuovo tralcio. Perciò non esiste un ordine o uno schema ripetuto all’infinito e le viti, soprattutto in questo periodo dell’anno, spoglie da tempo della loro chioma smeraldina, « assomigliano a donne con lunghi capelli sciolti scompigliati dal vento ».

Caos, libertà, ma anche tanta cultura, curiosità e un’innata propensione alla ricerca per migliorare la salute dei suoi vigneti, accuditi anche grazie ad eccellenti collaborazioni accademiche. Come quella col Professor Fregoni, assieme al quale si sperimentano tecniche di potatura contro il mal dell’esca. Ovviamente assecondando le dinamiche biologiche delle piante, nell’ottica che viti sane producano uve migliori e con quelle, di pari passo, si possa ottenere un vino di carattere e territorialità. Sempre secondo natura. E proprio per tener fede al suo obiettivo, Paolo non teme di effettuare scelte imprenditoriali coraggiose come evitare di imbottigliare in quelle annate che, per condizione climatiche, non abbiano permesso alle uve di raggiungere livelli qualitativi adeguati ai suoi standard di produzione. Il compito può apparire meno gravoso quando la professionalità e l’onestà di condotta gli abbiano intessuto attorno una rete di clienti e amici fedeli che acquistino anche il prodotto sfuso, sempre lieti di poter gustare il sincero vino delle Apuane. In realtà, solo la dedizione alla terra e la passione per l’arte di fare vino possono essere di sostegno mentre si affrontano le complesse dinamiche alle quali un piccolo produttore è costretto a soggiacere.

La scelta di non legare le viti è, come si suol dire, la punta dell’iceberg perché al Podere Scurtarola non si usano concimi né trattamenti chimici, non si irriga né si impiegano mezzi meccanici e la potatura, sia secca che verde, è effettuata secondo ponderata necessità. Osservando l’impressionante pendenza del terreno, mi rendo conto che tante scelte di conduzione agronomica possano sembrare imposte dall’orografia, ma non di meno il pensiero insegue facili parallelismi con le pratiche colturali delle mie radici liguri, dove si è abituati a parlare di “viticoltura eroica” talvolta con rassegnazione, ma più spesso con orgoglio.

Essendo venuto a conoscenza di queste informazioni, mi lascio influenzare dai miei schemi mentali, dimentico del fatto che a Pierpaolo le categorie stiano strette. Gli chiedo ingenuamente: « Ma quindi lei è in biologico o biodinamico? ». Sospira, un po’ infastidito, ma risponde sorridendo: « Sono Diodinamico! – e subito puntualizza – Ho fatto richiesta di certificazione, ma sono sicuro che ci vorrà del tempo. »

A conferma delle sue parole mi mostra la zona di vinificazione dove campeggiano tini di fermentazione in acciaio accanto a quelli in legno, quasi all’aperto. Ci sono anche alcune vasche refrigerate acquistate per prassi, ma dismesse quasi subito perché il vino deve rispecchiare la sua filosofia che non prevede compromessi né fermentazioni a temperature controllate.

Spilla un bicchiere di bianco per offrirmi un primo approccio col suo prodotto, estraendolo da una botte in cui la frenesia creativa non si è ancora placata.  Il colore è intenso, compatto anche per via di una leggerissima velatura da lieviti e anidride carbonica, mentre il profumo risente del mancato approdo alla bottiglia, pur regalando piacevole freschezza e accattivante dinamismo. Sarebbe necessario qualche minuto perché il bouquet possa schiudersi a dovere, ma non c’è tempo per assecondare la prassi della degustazione. Si tratta dell’ultima vendemmia, il vino sta ancora evolvendo, e pare che i laboriosi saccharomyces non abbiano del tutto esaurito la loro preziosa forza vitale. Una pungenza cremosa avvolge il palato, solleticando il cavo orale e lasciando alternativamente spazio alle sensazioni di freschezza (acidità) e calore (alcolicità). La causa è da ricercarsi nel proseguo dell’attività dei lieviti i quali, nel loro vivace metabolismo, producono etanolo e anidride carbonica aggredendo il glucosio. Infatti, in punta di lingua, si può ancora percepire un labile residuo zuccherino.

Paolo mi obbliga a contravvenire alla consolidata prassi di consumare tutto il contenuto del mio bicchiere: vuoi per rispetto degli sforzi congiunti della vite, del vignaiolo e del cantiniere, vuoi per patologica ingordigia, ho sempre deprecato chi sacrificava il vino allo spitton (altrimenti detto crachoir o, più italianamente, sputacchiera) e considerato un valore aggiunto il pacato entusiasmo di una degustazione, quale gentile effetto collaterale. Ma come contraddire il padrone di casa quando ti inviti a restituire alla terra ciò che la Terra ha prodotto, al fine di chiudere “il cerchio della vite”?

La cantina è ben organizzata, costituita da un doppio locale nel quale avviene l’affinamento in legno di varie dimensioni, nella costante ricerca delle migliori condizioni affinché il vino trasudi la propria naturale individualità. Guai a pensare, però, che qualche aspetto sia affidato al puro caso: i muri sono letteralmente tappezzati di encomi, riconoscimenti e attestazioni, a dimostrare che i  risultati raggiunti sono tutto fuorché felici coincidenze di un eccentrico fortunato.

Per onor di cronaca devo ammettere di non aver sperimentato alcun vino imbottigliato. Le mie impressioni si riferiscono ad assaggi spillati direttamente dai caratelli, il cui contenuto ignoro tutt’ora, se non che il millesimo di riferimento fosse il 2015. Mi sono diplomato sommelier, è vero, ma non ho ancora maturato un’esperienza tale da individuare tutti i vitigni impiegati e le rispettive percentuali. Probabilmente avrei potuto giocare d’astuzia facendo riferimento al disciplinare della D.O.C. Candia dei Colli Apuani e azzardare riconoscimenti di Vermentino, Albarola e Trebbiano, ma il rischio di incorrere in una magra figura sarebbe stato molto elevato e, secondariamente, ne sarebbe andata delle mia autostima se avessi ripagato l’onestà di Pierpaolo con un bieco sotterfugio. Anche perché non mi avrebbe dato la soddisfazione di sapere se avessi indovinato o meno la composizione dei suoi vini in quanto, non me ne voglia il Dott. Lorieri, l’impostazione produttiva ricorda un po’ la visione francese secondo la quale la discriminante di una bottiglia è il buon vino in essa contenuto. Al consumatore non deve interessare come sia stato realizzato o quali e quante uve vi abbiano concorso.

Volgo perciò l’attenzione dall’aspetto tecnico-organolettico a quello più squisitamente emozionale, memore di alcune immagini evocative tracciate dagli esperti colleghi dell’AIS. Ci avevano raccomandato di ascoltare il vino per imparare a considerarlo come un essere vivente, come un figlio del territorio, della vite e della dedizione del vignaiolo. Dopo aver assaggiato due esemplari, l’impressione risulta nitida: concordemente all’analisi sensoriale, il primo vino mi era apparso come un giovane esuberante, traboccante vitalità, impetuoso – solo a tratti “oltraggioso” – desideroso di far baldoria e restare alzato fino a tarda notte; l’altro era profondo, intenso, misterioso e meditativo, un tipo riservato – solo a tratti “scontroso” – perché con tanto da dare, voleva essere certo di offrire le sue doti alla persona giusta. Condivido queste mie impressioni con Paolo, con certa apprensione perché, per l’appunto, sono solo impressioni e, per definizione, altamente soggettive. Mi concede un assenso bonario, forse per non mortificare il mio palese entusiasmo, e quindi mi spiega che l’uvaggio delle due botti è molto simile, perciò la sostanziale differenza che percepisco è in buona parte frutto dei diversi lieviti. Facendo analizzare la propria cantina, infatti, ha rinvenuto cinque ceppi di lieviti autoctoni responsabili sia delle fermentazioni spontanee, in piena coerenza con la scelta di intervenire il meno possibile nel processo produttivo, sia delle diverse personalità che contraddistinguono i vini.

Prima di lasciare Podere Scurtarola, chiedo al mio ospite di illuminarmi su una meravigliosa stravaganza di cui ho letto nel sito aziendale. Tra un bicchiere e l’altro, poiché le migliori intuizioni si manifestano a tavola, s’insinua l’idea di sfruttare le qualità del caratteristico materiale locale, il marmo, per l’affinamento dei vini. Il tutto nasce quasi per gioco con l’amico Stefano Grassi, titolare della Cava Capraia sita sul versante massese della Alpi Apuane, ma trova terreno fertile nella curiosità e voglia di sperimentare di Paolo. Dopo un rapido tira e molla sulle caratteristiche del contenitore, poiché non doveva essere una copia delle vasche squadrate per la stagionatura del vicino lardo di Colonnata, si raggiunge persino il compromesso estetico: Stefano afferma di possedere una grande fioriera inutilizzata, la cui forma cilindrica poteva ricordare quella di una botte. Tra il dire e il fare, in questo caso, il passo è stato breve e oggi la “Cantina di marmo” è una realtà esclusiva di territorialità estrema, dove i prodotti più tipici della zona sono armonizzati col materiale che ha fatto conoscere la provincia di Massa-Carrara in tutto il mondo.

Grazie ad un fuoristrada, i fortunati avventori vengono condotti all’entrata della cantina scavata nella montagna per assistere alla rimozione del pesante blocco marmoreo che ne ostruisce l’accesso, un po’ come nell’avventura di Aladino. Quindi ci si immerge in un mondo surreale dal fascino rude, ma nel contempo fiabesco, procedendo alla scoperta dei locali sottratti alla cava, da cui si estraeva il “fior di pesco” già caro a Michelangelo,  dove il vino, accolto e plasmato da braccia di marmo, genera rustica assonanza con i succulenti abbinamenti gastronomici tradizionali di focaccia e lardo.

Socializziamo?

Natale 2016 – Degustazione romanzata di un Valpolicella D.O.C. del 2000 (Cantine Pasqua)

« Per il pranzo di Natale, passa da casa a scegliere il vino. » disse mia madre al telefono.

Nel ripostiglio dell’appartamento dove abita vi sono alcune bottiglie superstiti ad un paio di generazioni di onesti bevitori. Quelle sopravvissute a mio nonno sono per la maggior parte vini piemontesi che, ahimè, conservano un valore affettivo, ma probabilmente esauriscono con quello la loro ragione ad esistere. Se fossero state conservate nei modi e nei luoghi opportuni, oggi potrei affermare di possedere un piccolo tesoro perché un buon barolo, anche a distanza di cinquant’anni, ha sempre qualcosa da raccontare. Ma il ripostiglio di casa non è una cantina e le escursioni termiche, intervenute in decenni di avvicendamenti stagionali, pregiudicano l’evoluzione del vino condannandolo ad un’impietosa e irreversibile ossidazione.

La scelta poteva dunque ricadere solo sulle bottiglie acquistate da mio padre. Queste, pur avendo superato la pubertà, godevano del favore di mia madre secondo la quale, quando si tratti di vino, “non tutto è perduto”. Nata e cresciuta nello stato di necessità in cui il secondo conflitto mondiale aveva costretto la maggior parte delle famiglie italiane, si era connaturata in lei la convinzione che nulla dovesse essere sprecato a meno che non manifestasse evidenti inclinazioni acetiche. Ma anche in quel caso, esistevano alternativi e insospettabili scopi domestici per utilizzare un vino divenuto ormai imbevibile.

Escluse le bottiglie di origine ignota e quelle che, per motivi legati alla normativa sull’etichettatura, non erano obbligate a riportare l’anno della vendemmia, restava un Rosso della Valpolicella del 2000 ed un bottiglio… ehm, chiedo scusa, volevo dire una magnum di Rosso di Montepulciano della stessa annata. Per esigenze di natura sia pratica che estetica legate alla ricorrenza, il Valpolicella ebbe la meglio sul Montepulciano.

Ad ogni modo, non ero affatto entusiasta della scelta. Tra gli insegnamenti ricevuti durante il corso da sommelier vige l’assioma secondo cui il vino, essendo materia viva, è soggetto ad una naturale evoluzione e, dunque, può essere consumato entro un lasso di tempo piuttosto preciso senza incorrere nel rischio di una sostanziale alterazione delle sue qualità: taluni vini bianchi, beverini e con poca struttura, ad esempio, raramente conservano la propria freschezza ed esuberanza oltre i due anni; i vini rossi, invece, sono generalmente più idonei a sopportare il trascorrere del tempo e, anzi, per alcune qualità è persino auspicabile un periodo ulteriore di affinamento in bottiglia, in aggiunta a quello effettuato dalla cantina produttrice. Tanto premesso, restava il fatto che sedici anni d’attesa sarebbero comunque stati troppi anche per un Valpolicella conservato in cantina a temperatura e umidità controllate. Figuriamoci nel ripostiglio di un appartamento!

Poco prima del pranzo mi accinsi a stappare la bottiglia con pregiudizievole riluttanza in quanto, pensavo, nella migliore delle ipotesi il turacciolo si sarebbe spezzato durante l’estrazione, obbligandomi a studiare qualche soluzione poco ortodossa per averne la meglio. Inoltre, tale circostanza mi avrebbe di certo esposto al ludibrio familiare, qualora pezzetti di sughero fossero malauguratamente precipitati nel vino.

Inserito il verme del cavatappi in profondità, ponendo sempre la massima attenzione affinché non fuoriuscisse dall’estremità opposta, feci delicatamente leva esercitando una pressione uniforme. Dopo una prima svogliata resistenza, come se la bottiglia rivendicasse il diritto esclusivo alla proprietà sul suo contenuto, il turacciolo scivolò via con un cauto e sonnacchioso schiocco nel finale, retaggio d’una nobiltà d’origine che l’attesa non era riuscita a fiaccare. Lo avvicinai al naso per valutare la presenza di eventuali difetti, sempre memore del precetto contadino: “se il tappo sa di vino, difficilmente il vino saprà di tappo”, dovendo infine constatare l’infondatezza della mia diffidenza.

A questo punto, ignoro quanta parte delle valutazioni successive sia stata dettata da trasporto emotivo e quanta dalle effettive competenze maturate in due anni di accanite degustazioni, più o meno guidate. Fatto sta che l’esercizio di analisi sensoriale, intrapreso con assiduità da quando mi ero avvicinato professionalmente al mondo del vino, fu reso più intenso dall’emozione ricevuta in quella particolare circostanza, tanto da volerlo rendere indelebile fissandone le impressioni sulla carta.

Il testo didattico intitolato “Il vino italiano – Panorama vitivinicolo attraverso le denominazioni di origine” recita a proposito di quella specifica tipologia:

I vini della Valpolicella sono di colore rosso rubino vivace, con profumi vinosi e fragranti di fiori rossi ed amarene, di media struttura, decisamente freschi e di modesta tannicità, in genere da bersi giovani. Il Valpolicella superiore è un vino più strutturato e morbido, meno fresco ma con percezioni pseudo caloriche decisamente più percettibili.

Su questo inciso pedissequamente riportato e difficilmente confutabile, bisogna effettuare almeno una precisazione: il disciplinare di produzione, documento che stabilisce caratteristiche e metodi produttivi affinché un vino possa fregiarsi della denominazione d’origine, è stato aggiornato nel 2010 e lo stesso era già stato modificato nel 2003, perciò i criteri produttivi e le percentuali in uvaggio del Valpolicella del 2000 potrebbero essere diversi da quelli cui fa riferimento il manuale delle denominazioni.

Tanto premesso, quando versai il vino nel bicchiere iniziò l’avventura sensoriale ed emozionale che il sommelier, così come ogni altro appassionato, deve sperimentare direttamente all’apertura di ogni bottiglia e che nessun libro sarà mai in grado di trasmettere. Infatti, l’epoca suggerita per il consumo di un Valpolicella D.O.C. varia da uno a tre anni, come a dire che quella tipologia di vino non possieda le caratteristiche per affrontare un lungo affinamento in bottiglia, superando indenne il trascorrere dei lustri. Ma il vino è vivo e, se non è definitivamente spirato, sarà sempre in grado di raccontare una storia, magari di dura lotta per resistere ad una cattiva conservazione, ma sempre di storia si tratterà per chi avrà la voglia e la curiosità di starla ad ascoltare.

Il liquido scivolò sul vetro con misurato entusiasmo, suggerendo una consistenza dalla quale sembrava quasi emergere una nuova vitalità dopo tutti quegli anni di letargo immeritato. Non trovai particelle in sospensione che intaccassero la limpidità del vino, la quale rifletteva dignitosa e vivida la cromaticità ancora interessante di un rosso granato. Le sfumature dell’unghia, la parte più sottile del liquido che si viene a formare una volta inclinato il bicchiere, stavano invece già virando verso un eloquente aranciato. Facendo compiere al calice qualche rotazione, però, la consistenza si rivelò ben più energica di quanto potessi aspettarmi e mi indusse a condividere il pensiero di mia madre sulla ragionevolezza del non giudicare un vino prima di averlo assaggiato.

Al naso l’esperienza emotiva si fece più pungente, drammatica, quasi mistica, catapultandomi in un susseguirsi di immagini evocative mano a mano che mi sforzavo di trovare una precisa identità ai profumi inspirati. L’intensità degli aromi doveva essersi affievolita, ma il bouquet era armonico, equilibrato nella sua complessità evolutiva e chiaramente “fine”, come la tecnica di analisi sensoriale definisce la qualità olfattiva di buon livello. Non fu semplice intercettare le diverse sfumature odorose che il trascorrere del tempo aveva amalgamato e attutito, ma con diverse insufflazioni, aspettando lo schiudersi dei profumi, venni ampiamente ripagato della mia pazienza.

Il primo ricordo scaturì dal limpido sentore di ciliegia: non propriamente candita, ma più sotto spirito – come quelle che usava fare mio padre – anche se in questo caso l’aggressività dell’alcol era assente, per cui restava soltanto la dolcezza del frutto. Mi sovvenne l’assaggio, forse un po’ prematuro, in una sera d’estate: la ciliegia, invitante, brillava alla luce della lampada del terrazzo mentre mio padre me la tendeva con sguardo di chi la sa lunga. Lucida, appena estratta dal suo lago rosso fuoco, il profumo mi aveva già incuriosito e sedotto perché non assomigliava ad alcunché di conosciuto, trasfigurato com’era dalla morbidezza ed esoticità dell’alcol. Poi, in bocca, la vera e propria esplosione di potenza calorica che le papille vergini di un adolescente non erano in grado di gestire. Tra la scelta di espellere e quella d’inghiottire vinse la seconda, ma a parte il pizzicore sulla lingua, il bruciore nello stomaco e le risate di mio padre, lentamente emerse il sapore composito e cremoso della ciliegia sotto spirito.

Esplorando alla ricerca di altre nuance odorose, il vino proseguì regalandomi ulteriori memorie riconducibili sempre al periodo della mia fanciullezza: i profumi della frutta candita ed essiccata di papaya e albicocca portata in dono da mio padre di ritorno dai suoi approdi ad Istanbul, quelli dei potpourri di rosa e cannella nelle stanze della nonna e, infine, il ricordo vagamente balsamico dell’anisette consumato d’inverno nei bar di paese.

Mi rendo conto che la cosa possa apparire eccessiva, ma per un istante la mente vagò fuori dal tempo in una realtà nella quale i confini del prima e del dopo erano stati soppressi. Non mi capacitavo di come un vino potesse regalare simili esperienze di profonda intimità, mentre indugiavo sulla possibilità irrazionale che si fosse creato un legame atavico tra me e quel liquido rosso granato confinato in un calice: non più bevanda o genere voluttuario privo di un’anima, ma grazie ad un meraviglioso incantesimo quel vino si era tramutato in un indovino capace di leggere nel passato di uno sconosciuto.

In quel momento appresi quanta verità celassero le parole dei degustatori più esperti: “il vino è vivo… il vino ha un’anima”. C’era un’ottima dose di suggestione nel mio sentire, qualche rigurgito di letture alchemiche e quel sottile confine tra entusiasmo e malinconia legato ai giorni di festa era stato varcato più volte in entrambe le direzioni, ma l’esperienza fu davvero emozionante, schiudendomi le porte alla consapevolezza di un’unione intellettuale tra uomo e vino o, parafrasando Ugo Foscolo, di “corrispondenza d’amorosi sensi”. Ciò in quanto era emerso l’aspetto spirituale della degustazione: sebbene fosse universalmente condivisibile la presenza di sentori di ciliegia o rosa, solo in me avevano scatenato quei ricordi, mentre in altri avrebbero aperto finestre su sensazioni scaturite da vissuti diversi.

Superato l’impatto olfattivo, assaggiai d’impeto il contenuto del bicchiere. In bocca il vino era come un maratoneta agli ultimi cento metri prima del traguardo: stanco, ma felice e determinato a dare il meglio di sé sino alla fine. I muscoli, contratti allo spasimo, tenuti avvinti dalla volontà di dimostrare ancora una volta la propria caparbia determinazione, guizzavano con il semplice equilibrio di colui che l’esercizio ha forgiato per resistere. Le sensazioni gustative si erano certamente attenuate, eppure nel complesso riflettevano la struttura armonica dell’atleta: durezze smussate dal tempo di tannini polimerizzati, soffice acidità e sapidità velata, ma anche morbidezze ridimensionate nella loro primitiva baldanza, con sensazione alcolica mitigata e glicerina parzialmente precipitata. Ciò nonostante, il sorso si rivelò estremamente interessante proprio perché la mancata predominanza di una qualsiasi caratteristica, offriva la limpida piacevolezza del ponderato equilibrio gustativo tra struttura, intensità e persistenza, mentre grazie alla via retronasale recuperavo parte delle note fruttate e speziate dell’esperienza olfattiva.

Col senno del poi mi sono interrogato sulla longevità di quel vino, quale sorte gli sarebbe toccata se fosse stato correttamente conservato in cantina e cosa avrei percepito se lo avessi aperto cinque o dieci anni prima. Ma questo è il bello di stappare una bottiglia dimenticata: da una parte il rischio della scoperta di averne consegnato il contenuto alla malevola ossidazione, dall’altra l’emozione di poter evocare una storia che rimarrà nella propria memoria unica e indelebile.

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